Costume e società

In occasione dell’8 Marzo, giornata internazionale dei diritti delle donne, è fondamentale soffermarci a riflettere

Un viaggio a ritroso nel tempo partendo da molto lontano

…E pensare che nella preistoria la donna aveva un ruolo centrale, in quanto creatura capace di donare la vita!

Esisteva infatti il culto della Dea Madre. Con l’avvento del patriarcato, già a partire dal Paleolitico e dal Neolitico, cominciò invece ad essere proprietà dei capi tribù.

Nell’antica Grecia, la donna era considerata un essere inferiore e per questo era reclusa dentro le mura domestiche: era solamente una fonte di piacere sessuale. Viveva in uno stato di completa minorità rispetto all’uomo ed era soggetta alla tutela del padre e del marito.

È in epoca romana che la donna ha iniziato a ricevere qualche riconoscimento e a ricoprire un ruolo attivo all’interno della società. Le donne che facevano parte degli strati meno abbienti, potevano prendere parte ai banchetti e venivano considerate le consigliere dei mariti, anche se il loro compito principale era quello di educare i figli.

Ed è proprio in questo periodo, che possiamo trovare i primi fatti di cronaca che raccontano degli omicidi compiuti dagli uomini ai danni delle donne. A conferma di ciò, il lavoro degli archeologi che, attraverso le iscrizioni funerarie, ci hanno permesso di ricostruire alcune storie.

Non mancano, già allora dunque, casi di femminicidio che vedono protagonisti personaggi celebri o donne ricche, tanto da essere citati perfino dagli autori classici.

Lo storico Tacito racconta negli Annali la storia di Ponzia Postumina, vissuta al tempo di Nerone, indotta “con ricchi doni all’adulterio” dal tribuno della plebe Ottavio Sagitta e poi ammazzata al termine di una notte di passione trascorsa fra “litigi, preghiere, rimproveri, scuse ed effusioni”.

Tutti ricordiamo Poppea, moglie di Nerone, anche lei morta durante la gravidanza a causa di un calcio in ventre sferratole dall’imperatore, che peraltro aveva già fatto uccidere la madre Agrippina e la prima moglie Ottavia.

Saltando ai nostri giorni, molte delle cantanti più famose del Blues come Aretha Franklin, Whitney Houston, Tina Turner, sono state annichilite dalla violenza dei propri uomini che incarnavano più ruoli, marito, manager, compagno e che hanno abusato di loro per anni.

Questo ci porta ad una considerazione sulla situazione attuale, che annota la crisi dei rapporti in atto nella nostra società sempre più individuata e chiusa in sé stessa, dove emerge la mancanza nei rapporti affettivi e nell’amore di un’educazione improntata al rispetto dell’essere umano, sia nell’uomo sia nella donna.

L’uomo fatica ad accettare questo percorso costante di emancipazione da parte della figura femminile, perché se da una parte conserva un certo potere nella sfera pubblica, dall’altro si ritrova con una serie di problemi nella sfera domestica, dove aveva fino a qualche tempo fa deteneva il potere di diritto e non doveva conquistarselo, così come la sua autorevolezza.

Esiste un’emergenza sommersa, nascosta, che interessa tutto il mondo, che riguarda violenze subite di tipo fisico, sessuale, psicologico. Sono violenze quotidiani che non fanno notizia, non suscitano clamore, se non quando l’epilogo è drammaticamente irreversibile, perché́ spesso accadono tra le mura domestiche ad opera di familiari.

È fondamentale l’informazione e la formazione per far sì che le vittime di questo fenomeno possano trovare il coraggio e la forza di denunciare. E la scuola è il luogo culturale più idoneo per iniziare ad affrontare questa situazione formando i giovani.

Inevitabilmente, nel dibattito sul femminicidio, entra il ruolo e la responsabilità̀ dei media nell’utilizzo di un linguaggio sessista e la radicata consuetudine alla strumentalizzazione del corpo della donna nelle campagne pubblicitarie. In Italia i media, e soprattutto la televisione, da anni propongono un modello femminile che priva la donna di dignità̀ e rispetto e pone l’accento su elementi unicamente estetici: una donna-oggetto ridotta a merce da consumo.

Anni fa il marchio di intimo Yamamay ha lanciato una campagna contro la violenza sulle donne il cui slogan è “ferma il bastardo”. La campagna, che visivamente utilizzava l’immancabile donna con l’“occhio nero”, diventata essa stessa marchio, ha acceso un dibattito sull’opportunità̀ o meno di utilizzare la violenza contro le donne a scopo di marketing.

Anche la nostra magnifica lingua italiana, espressione della nostra cultura e società̀, ci suggerisce, con i suoi tanti sostantivi maschili, che le pari opportunità̀ sono ancora lontane.

Potrà mio figlio/mia figlia fare l’astronauta (come si dice al femminile?), il medico (la dottoressa non è propriamente sinonimo), l’avvocato (l’avvocata!), l’operaio (operaia)?

È impressionante vedere come nella nostra lingua alcuni termini che al maschile hanno il loro legittimo significato, se declinati al femminile assumono improvvisamente un altro senso, cambiano radicalmente diventando un luogo comune un po’ equivoco, come ci ricorda il professore Stefano Bartezzaghi. Vi fornisco alcuni esempi.

Un cortigiano: un uomo che vive a corte. Una cortigiana: una poco di buono.

Un uomo di strada: un uomo del popolo. Una donna di strada: una poco di buono.
Un uomo disponibile; un uomo gentile e premuroso. Una donna disponibile: una poco di buono.

La lista di parole continua ancora.

C’è ancora tanto da fare per eliminare i pregiudizi a tutti i livelli e in tutte le classi sociali. Dovremmo imparare che l’altro è importante per noi e che non possiamo rimanere indifferenti di fronte alla sofferenza dell’altro.

Homo sum humani nihil a me alienum puto”.

Concludo lanciando un inno di speranza, che ci porta a trovare un senso al nostro vivere e che, quando sembra perduta, va cercata, scovata e nutrita affinché cresca.

La speranza è una responsabilità individuale, è una virtù: come l’arte di vivere.