Cultura

Il ruolo del monachesimo Italo-greco in Calabria

Come è noto, il primo cristianesimo subì le persecuzioni da parte del potere romano, di cui ne abbiamo ampia testimonianza nella apologetica cristiana, e che causò la morte di numerosi martiri. Tutti coloro i quali riuscirono a sfuggire, espressero la loro fede non con il sacrificio, ma attraverso l’ascesi. Per tale motivo, il monachesimo costituirà una peculiarità del Cristianesimo tardo-antico, modificandosi progressivamente sotto la guida di figure carismatiche che con il tempo, conferiranno al fenomeno caratteristiche diverse. In questo contesto, la figura dell’uomo santo crebbe, acquistando in un primo momento maggiore rilevanza in Siria e successivamente in tutto il Mediterraneo orientale. Queste figure oltre a ricoprire un valore spirituale importante per la comunità, rispendevano anche ad esigenze della popolazione. Quando la situazione politica del vicino oriente, dal IV secolo in poi, incentivò ulteriormente la migrazione di monaci e popolazione, si iniziò a favorire come zona di riparo l’Italia meridionale. Ed in Calabria, il periodo delle migrazioni coincise con lo sviluppo della sericoltura, attività di gran lunga praticata in Siria. L’espansione del monachesimo italo-greco riguardò l’Italia meridionale, in particolare la Calabria, sia nel periodo tra l’età giustinianea e la riconquista bizantina del sud, sia dal X secolo in poi. La penisola tra i secoli VII e VIII, fu caratterizzata da un potenziamento del monachesimo tramite l’aumento dell’immigrazione. Molti monaci fuggivano dall’Oriente, altri si recavano in pellegrinaggio a Roma ed in particolare, in Sicilia e in Calabria questo fenomeno di migrazione fu strettamente legato al potenziamento dell’apparato bizantino in Italia meridionale. In particolare, dal V secolo in poi, gruppi di monaci detti anche basiliani, fuggirono dalle zone orientali, in particolare dalla Siria: fu proprio questo il periodo in cui la Calabria visse una ellenizzazione del rituale liturgico. A causa degli scarsi indizi per quanto concerne le prime tracce del monachesimo in Calabria resta preziosa l’esperienza cassiodorea con la fondazione del Vivarium monasterium, potendolo considerare come la prima esperienza monastica calabrese di cui abbiamo informazioni certe. È certo che Cassiodoro non seguì la regola benedettina dell’ora et labora, in quanto privilegiò il lavoro intellettuale. Cassiodoro, durante la sua vita nel Viviarium, commissionò la preparazione di diversi codici della Bibbia e la traduzione di molti codici greci. Con lo stesso intento anche di lavoro culturale furono i monasteri di fondazione successiva come quello di S. Nazario, divenuto poi di S. Filareto, presso Seminara dove visse anche S. Nilo. Anche qui i monaci, erano vocati alle arti intellettuali, trascrizione, miniatura, arte orafa, oltre che alle attività agricole per le necessità del cenobio. Nei secoli infatti successivi, i monaci risultano ampliamente impiegati nelle comunità, dove lavoravano alla coltivazione dei campi aiutando i contadini. I monaci già nelle zone orientali erano predisposti al lavoro delle colture nei campi con il fine di aiutare anche la comunità laica; per analogia si ritiene che le comunità monastiche sul territorio calabrese, derivanti da zone orientali come la Siria, possano aver introdotto ed incentivato anche la gelsicoltura (ampliamente praticata in Oriente). Considerando inoltre la vocazione tessile della popolazione calabrese, già nota per l’esportazione di capi di lana, è molto probabile che questa tradizione tessile possa aver attecchito nella regione, favorita dagli insegnamenti dei monaci, ma anche della popolazione giunta dal Vicino Oriente nel periodo tardo antico. La coltura dei gelsi richiedeva una manodopera attenta e una scelta del territorio da coltivare guidata da determinate condizioni. Non è difficile, credere che i monaci si dedicassero a queste attività così attente e precise. Nello specifico per questa coltura, considerando che il Mediterraneo orientale aveva sperimentato e conosciuto la gelsicoltura da molti secoli, i monaci e la popolazione provenienti da quelle zone potrebbero certamente aver portato con sé le conoscenze in merito ad essa. Proprio la Siria, uno dei luoghi di origine di molti monaci, possedeva una tradizione serica affermata che riforniva i mercati mediterranei. Lì, già dall’arrivo dei Parti si era diffusa la lavorazione di tessuti, decorati preziosamente, secondo i motivi dell’estremo oriente. L’unica fonte ad avvalorare l’ipotesi di un insediamento di monaci orientali in Calabria tra V e VI secolo, è stato l’evangeliario denominato Codex Purpureus Rossanensis. È stato ipotizzato che probabilmente esso venne condotto in Calabria da alcuni monaci per sottrarlo alla possibile distruzione a causa della lotta iconoclasta in Oriente. Questo preziosissimo manufatto è tuttora custodito presso l’Archivio della Diocesi di Rossano. Il Codex è redatto in una scrittura onciale greca o biblica comprendente quindici miniature. Gli studiosi lo hanno localizzato cronologicamente tra il IV e il VI-VII secolo. Esso sarebbe un’altra prova del contatto e del flusso di provenienza siriaca, che avrebbe potuto introdurre sul territorio la produzione della seta e la gelsicoltura. Oltre a queste considerazioni si ritiene anche importante che già lo storico Procopio da Cesarea, aveva scritto che l’Impero bizantino stanco di sottostare ai costi di importazione imposti dai Sasanidi sulla seta, che giungeva dalla Cina attraversando la Persia, inviarono due monaci affinché portassero a Bisanzio il segreto della produzione serica. I due monaci tornarono nel 552 dall’estremo Oriente, nascondendo delle uova dei bachi da seta. Il segreto aveva oramai raggiunto l’Occidente e il monopolio orientale rischiava di giungere a termine. Giustiniano, infatti, incentivò l’apertura di opifici tessili in tutti i territori bizantini e pose attenti controlli sulla produzione bizantina dei tessuti di porpora.