Costume e società

Il bisso, la seta del mare

Il bisso ha tutto ciò che affascina e stimola l’immaginazione: brilla come l’oro alla luce del sole, viene dal mare, è raro e prezioso e la sua storia risale all’antichità. Fino alla metà del secolo scorso il bisso veniva ancora raccolto e lavorato in Puglia, nel territorio di Taranto con il nome di lanapenna.

In Sardegna, invece, la morbida fibra dal colore bruno-dorato viene filata, tessuta e utilizzata per realizzare ancora oggi preziosissimi ricami. Oggi la Pinna nobilis, bivalve di grosse dimensioni (può arrivare a un metro di lunghezza), è considerata a rischio estinzione, a causa della pesca indiscriminata, dell’inquinamento e della diminuzione delle aree dove crescere. La specie è attualmente sottoposta a regime di protezione e tutela. È proibita la raccolta, l’uccisione, la detenzione, la commercializzazione e persino l’esposizione ai fini commerciali della specie.

Il bisso, deriva dal latino byssus e dal greco byssos e indica tessuti diversi nelle varie epoche.

Già Aristotele e Plinio il Vecchio descrivevano le attitudini della Pinna nobilis e del suo compagno, il pinnotheres, una specie di granchio. Tramite Ebrei e Fenici, la tecnica della lavorazione del bisso è arrivata fino ai Greci, compresi quelli delle colonie del sud Italia come Taranto.

Perciò la tela di bisso era tenuta in tanta considerazione dagli antichi, dall’essere venduta a peso d’oro, come riferisce Plinio. Nel Vecchio Testamento il termine bisso viene citato numerose volte. Ad esempio l’Esodo, recita: “con la cintura di bisso ritorto, di jacinto, di porpora e di scarlatto …”.

Anche i greci dell’età omerica conoscevano il bisso. Lo stesso Omero ne parla, anche se nelle sue opere. Nell’Odissea: “Elena intanto si avvicinò all’arche dov’erano i pepli a ricami, che lei stessa fece. Uno ne prese Elena, e lo portava, la donna bellissima, quello che di ricami era il più vago e il più grande, come stella brillava e sotto tutti era l’ultimo. In entrambi i casi con le frasi “fulgido come una stella” e “come stella brillava” il poeta sottolinea la lucentezza del tessuto, tipica del bisso, che alla luce rifulge come l’oro”.

In un passo del II libro delle Cronache, Salomone chiede, per la costruzione del tempio, che il re di Tiro gli mandi un uomo esperto nei filati di bisso e nella porpora cremisi e violetto, mentre in un altro passo dello stesso libro si dice che nel tempio tutti i cantori leviti erano vestiti di bisso.

Il bisso marino è stato oggetto di innumerevoli miti e leggende. Tanto che perfino Jules Verne deve esserne stato particolarmente colpito, se in Ventimila leghe sotto i mari 1870, fa pronunciare al suo capitano Nemo le seguenti parole: “Gli abiti che lei indossa sono tessuti di filo di bisso di certe conchiglie e poi tinte in antica porpora […]. Una volta, se ne facevano belle stoffe, calze, guanti, essendo questi filamenti nel tempo stesso morbidi e calorosi.

Taranto lega al mare e alle sue ricchezze la propria storia millenaria e non a caso la fama dei mitili tarantini era nota sin dall’epoca greco-romana. Fra questi, due in particolare, la Pinna nobilis e il Murice sono più volte citati in testi classici come fonti per la produzione di tessuti pregiati e di una tintura preziosa, la porpora, derivata dalla tradizione fenicia. Apprendiamo dalle fonti come questa città nell’Italia meridionale, sia stata il centro di una fiorente lavorazione, al punto che in epoca classica era famosa per le tarantinidie, vesti femminili diafane giudicate lascive e voluttuarie, una delle massime espressioni dello sfrenato lusso tarantino. Lo scrittore italiano Tommaso Niccolò D’Aquino decanta nella sua opera maggiore, Delle Deliciae Tarantine la bellezza di Taranto, sua città natale, durante il periodo di massimo splendore, nel III sec. a.C.

La pesca dei molluschi del bisso era analoga a quella dei murici. Si tratta di un ciuffo di lunghi filamenti simili alla seta con i quali l’animale si ancora al fondale e che un tempo venivano raccolti insieme alla conchiglia per produrre la seta di mare.

Nell’antichità l’intensiva pesca dei grandi bivalvi avveniva con un attrezzo citato da Plinio con il nome di pernilegum. Di invenzione tarantina, era formato da due branche di ferro curve ad arco che servivano a cingere, come in una morsa, la conchiglia ed erano congiunte alla loro estremità ad una pertica di lunghezza variabile a seconda della profondità del fondale, calato dall’imbarcazione, abbracciava le varve e le estirpava con il relativo ciuffo di filamenti.

Una volta estratto il filamento, il processo di lavorazione comprendeva varie fasi, fino alla tessitura e poi alla colorazione, spesso con la porpora. Il bisso, dopo la raccolta, veniva sottoposto ad un primo lavaggio in acqua salata e in seguito lo si risciacquava in acqua dolce fredda. Si procedeva quindi all’asciugatura che veniva fatta al sole o in ambienti ventilati.

I bioccoli venivano successivamente sottoposti a pettinatura con un pettine corto, a dentelli fitti e di media lunghezza dalle punte sottili ed acuminate in acciaio, poiché il bisso, per diventare lucido, aveva bisogno di essere sfregato contro un corpo duro a superficie liscia. La cardatura dei bioccoli, avveniva in due fasi successive con due diversi strumenti. In una prima fase si usava una tavola chiodata e nella seconda un cardo a spillo. Per poter filare fibre così sottili occorrevano polpastrelli molto sensibili e delicati, perciò per questa fase della lavorazione venivano adoperate ragazze abbastanza giovani da avere ancora le mani adatte, con il pollice e l’indice di estrema sensibilità tattile. Si usavano dei fusi a piombo di circa 30 cm come quello Tarantino e Cipriota.

A Taranto, come nel resto d’Italia e del Mediterraneo, il declino della fiorente produzione incominciò già dal tempo dell’imperatore Giustiniano (500 d.C.) da quando cioè furono portate a Costantinopoli, dalle frontiere della Cina, da monaci Persiani, delle pianticelle di gelso e numerose uova di baco da seta. In breve tempo la seta si sviluppò nell’isola di Scìo (Chio, nell’Egeo) si diffuse poco dopo in Sicilia e da lì in tutta la penisola. La raccolta dei bioccoli di fibra di Pinna nobilis non poteva certo competere con la continua e illimitata produzione dei bachi in allevamento e così il bisso vide persi definitivamente molti mercati di sbocco. Andò così sempre più a trasformarsi in specializzazione che poche famiglie si tramandavano per una manifattura artistica di pregio, fatta di pezzi unici riservati per lo più ad omaggiare personaggi ed eventi importanti. Nell’Italia meridionale nei secoli vide dunque abbandonata la tessitura e il prezioso filato fu usato solo per ricamare. Nonostante la cospicua produzione manifatturiera del passato, solo pochissimi oggetti sono sopravvissuti fino ai giorni nostri, tanto che se ne contano meno di un centinaio sparsi nelle collezioni di tutto il mondo. Alcuni custoditi in prestigiosi musei, mentre altri, la maggior parte, si trovano in Italia, ma in questo caso spesso mal custoditi e non fruibili dal pubblico. Se molti oggetti sono andati perduti, fortunatamente le conoscenze sulla lavorazione del bisso non sono ancora del tutto scomparse, soprattutto a Sant’Antioco in Sardegna e a Taranto in Puglia, dove l’interesse per questa tradizione artigianale e patrimonio culturale dell’Italia del Sud è andato anzi crescendo negli ultimi anni.