Opinioni

Come affrontare (seriamente) il problema della valutazione del Sistema d’Istruzione Italiano

Riflessioni – cum grano salis – di un dirigente scolastico

Il varo dell’autonomia scolastica nel lontano 1999 –  pur nella lampante discrasia tra l’ampio spazio nel predisporre l’offerta formativa e l’inesistente autonomia finanziaria e di effettiva autodeterminazione –   aveva già allora sollevato il problema della valutazione delle scuole, di chi avrebbe dovuto certificarla e con quali modalità.

Quali criteri cioè avrebbero etichettato una “buona scuola”, come era possibile verificare l’effettiva efficacia di un’esperienza formativa, valutare la corrispondenza tra “ingresso ed uscita” intesa come intenzioni iniziali e risultati finali, quali fatti avrebbero potuto documentare in modo visibile il percorso intrapreso, come dimostrare di aver assolto al compito che le era stato affidato.

Il problema è ancor più cogente, atteso il clima di mediocrazìa diffusa che contraddistingue il nostro tempo

Per valutare la qualità di una scuola, è necessario partire dalla specificità dell’azione che essa svolge; che non può essere paragonata ad altre realtà (imprenditoriali, aziendali, politiche, pubbliche amministrazioni), diverse per definizione.

E’ altresì necessario comprendere, valorizzandolo, la natura del “bene” che offre ad alunni, famiglie, comunità locali. Il lavoro educativo, formativo e culturale è mosso dal semplice, alto e puro interesse per gli allievi così come sono e per tutto quello che possono diventare, valorizzandone aspirazioni e potenzialità; è favorito da un clima adeguato, da un ambiente positivo, ricco di diversità, mosso da una mèta – comune e ampiamente condivisa – che ha nel dirigente scolastico uno degli elementi strategici: non l’unico o l’indispensabile!

Assodata la necessità di momenti valutativi prioritariamente interni (autovalutazione) e di seguito esterni, ci sono a parere dello scrivente, alcuni elementi cruciali per avviare un serio percorso di valutazione di sistema.

Non ripetere l’errore – già commesso e denunciato illo tempore –  di scimmiottare da realtà “aziendali” modalità, o peggio modelli di valutazione. La scuola non è, non è mai stata, non sarà mai un’azienda; la scuola ha “utenti”, non “clienti”.

Pensare, ideare, costruire, sperimentare, diffondere ed applicare un’idea di valutazione condivisa che, allo stato, non appartiene ancora alla cultura scolastica italiana, nonostante  – o per colpa dell’I.N.Val.S.I.

Condividere politicamente, superando pur apprezzate quanto scontate logiche governative,  la strutturazione dell’idea della valutazione che necessariamente, per possedere i tratti di serietà e ponderatezza, non può avere caratteristiche di “provvedimento di legislatura”. Oltrepassare cioè le logiche becere di coalizione; intorno ai grandi temi come scuola, sanità, welfare, giustizia, Costituzione, c’è la necessità, da più parti avvertita, di condivisione ideologica per creare un nuovo modus agendi.

Destinare alla valutazione finanziamenti adeguati, monitorandone attentamente l’efficienza e l’efficacia della spesa. L’Italia, spesso pedissequamente, importa abitudini e pratiche di rilevazioni da altri paesi, ma finalizza alla valutazione risorse finanziarie assolutamente insufficienti, tra l’altro pessimamente spesi. L’Inghilterra, con l’OFSTED, investe per la valutazione circa 130 milioni di euro all’anno; la Francia circa 65 milioni di euro; la Spagna tramite il governo centrale e le autonomie regionali,  investe circa 70 milioni di euro; l’Italia 10 milioni affidati ad … I.N.Val.S.I. (sob!).

Last but not least, chiarire le modalità di scelta degli esperti a cui affidare la valutazione.

“Quis custodiet ipsos custodes”, diceva Giovenale nelle Satire e, più recentemente, Benedetto Vertecchi  su Tuttoscuola: “Chi valuterà… i valutatori?”.