Opinioni

Verso il tramonto dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e del multilateralismo?

L’analisi di due giovani studiosi impegnati in un master in Diplomazia presso l’Istituto di Politica Internazionale di Milano (ISPI)

Istituita nel 1995 come organizzazione internazionale formale, susseguita a quello che sarebbe dovuto essere un accordo provvisorio, ovvero l’Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) sembra oggi trovarsi in una condizione di immobilismo, al centro di accesi dibattiti pubblici e condanne da parte dei critici della globalizzazione, nonché accusata da più parti politiche di agire come una sorta di governo mondiale, minante la sovranità nazionale dei Paesi. Gli eventi degli ultimi vent’anni – crisi economiche, spostamento del potere verso est, isolamento americano, crisi pandemica – stanno trasformando gli equilibri politici e, conseguentemente, il mondo “a guida USA” che conoscevamo.

Al fine di comprendere le motivazioni sottostanti tale incapacità di agire e risolvere le controversie tra Stati, è necessario in primis inquadrare il contesto, nel quale l’OMC opera. Oltre a regolamentare il commercio dei beni, l’OMC include l’Accordo Generale sulle Tariffe e sui Servizi, in cui si concentrano maggiormente le economie moderne, e l’Accordo sugli Aspetti Commerciali della Proprietà Intellettuale. Tuttavia, pur in presenza di un’agenda così ampia e pur predisponendo di una procedura formale di risoluzione delle controversie tra Stati, l’Organizzazione, di fatto, non ha alcun potere coercitivo nel far rispettare le proprie norme, agendo mediante un mero effetto deterrente: la sola minaccia di portare un caso di fronte all’OMC dovrebbe esser sufficiente per un Paese a cambiare la propria politica commerciale. Se questo non dovesse avvenire, l’OMC può concedere ai Paesi membri il diritto di procedere con ritorsioni, senza che quest’ultime vengano considerate violazioni delle norme, con la possibile conseguenza, però, che i Paesi restino intrappolati in vere e proprie “guerre commerciali” assolutamente da evitare.

Quanto ora descritto è ciò che accaduto tra il 2017 e il 2018, quando la presidenza statunitense di Donald Trump ha dapprima mosso dichiarazioni bellicose contro l’OMC, poi attuato azioni aggressive di politica commerciale non solo contro Pechino, ma anche contro altri importanti partner commerciali, tra cui la stessa Unione Europea, i quali, a loro volta, hanno replicato con ritorsioni nei confronti degli Stati Uniti. La politica dell’”America first”, ha prodotto un’America sempre più sola, e ha generato una serie di reazioni, che hanno portato, in piena crisi pandemica, alla firma di accordi mega-regionali – tra i più rilevanti il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) nell’area del Pacifico e l’African Continental Free Trade Area (AfCFTA) nel continente africano – confermando l’incapacità dell’OMC di aprire round negoziali multilaterali. Infatti, l’ultimo tentativo di aprire un tavolo di negoziazione multilaterale risale al 2001 con il round negoziale di Doha in Qatar, in cui non si è però raggiunto alcuno accordo concreto.

Oggi, con la nuova amministrazione Biden, insediatasi lo scorso gennaio, la guerra commerciale con la Cina potrebbe cambiare volto. Già prima del suo insediamento il presidente americano ha affermato di voler portare gli USA a giocare nuovamente un ruolo di attore principale nel contesto multilaterale. Gli accordi ormai siglati potrebbero, però, rendere irreversibile il trend che per numerose ragioni vede il baricentro del potere economico mondiale spostarsi in Asia. Inoltre, gli eventi economici sembrano trascinare con sé anche quelli politici, con particolare riferimento al tradizionale sistema di alleanze statunitensi in Asia (Giappone, Australia e India).

Il Giappone e l’Australia hanno siglato il RCEP e si trovano più vicini all’orbita cinese. L’India, che si trova ancora fuori dall’accordo, è (al momento) esclusa dai vantaggi della crescita economica che ne deriverà.

Lo scorso gennaio, per la prima volta nella storia del continente africano 54 paesi hanno siglato un accordo: l’AfCFTA è l’accordo con il più alto numero di paesi coinvolti al mondo, e si propone, attraverso un’area di libero scambio di essere il volano della crescita del continente. I paesi africani attendono grandi benefici attraverso la riduzione progressiva di oltre il 90 per cento di dazi e la riduzione delle barriere non tariffarie su beni e servizi. Tuttavia, molti dubbi sono stati sollevati sulla sua effettiva applicabilità, sia a causa del frammentato sistema dei trasporti africano, sia per le difficoltà politiche, sia perché molte imprese non conoscono ancora l’accordo (da alcuni sondaggi in Gambia e Nigeria emerge come solo un quarto delle imprese ne è a conoscenza).

In Asia, nel novembre 2020 è stato siglato il Regional Comprehensive Economic Partnership tra i 10 membri dell’ASEAN con Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. Ciò che tale accordo segna non è soltanto una maggiore interdipendenza ed integrazione tra i Paesi della regione con un Pacifico sempre più “asiatico”, ma anche la perdita di peso strategico e geopolitico degli Stati Uniti nell’area, divenuta il centro nevralgico dell’influenza economica e del soft power cinesi. Si tratta del più grande accordo regionale mai siglato per numero di individui coinvolti (più di 2 miliardi di persone), e vede la Cina come protagonista. Infatti, Pechino, che già da anni investiva in numerosi progetti nell’area del Pacifico, trova oggi terreno fertile per la penetrazione di alcune sue aziende in settori strategici. In particolare, quello delle telecomunicazioni (con Huawei), quello della geo-localizzazione (Beidou) e quello dell’auto elettrica. La Cina, riuscirà a spingere i suoi standard in questi settori facendo adottare tali tecnologie in porzioni consistenti del pianeta. RCEP, che abbatterà progressivamente dell’85-90% le barriere commerciali, genererà importanti vantaggi per tutti i paesi partecipanti, sfruttando la complementarietà produttiva tra questi.  Attraverso la riallocazione degli investimenti (in particolare cinesi e giapponesi), ma anche attraverso la differenziazione delle catene del valore, numerosi investimenti (nel tentativo di partecipare ai benefici) arriveranno sia dall’Europa che dagli Stati Uniti.

In questa evoluzione, seppur indirettamente, gli USA sono il grande assente. Nel 2017 l’amministrazione Trump ha dichiarato il proprio ritiro dalla Trans-Pacific Partnership (TPP), favorendo la conclusione di RCEP.

Oltre agli USA, l’altro grande assente è l’India, che per timore di vedere il proprio mercato manifatturiero invaso da componenti a basso costo, ha deciso di non partecipare al nuovo accordo asiatico. L’assenza indiana avrà la conseguenza di isolarla nell’area del Pacifico e di rallentare l’acquisizione di quegli investimenti e di quelle tecnologie che servono al paese per sostenere il proprio sviluppo economico.

Inoltre, l’accordo assume una valenza particolare in materia politica e strategica. Infatti, assistiamo ad un ripensamento delle proprie alleanze strategiche da parte di paesi che erano nettamente schierati altrove. Ciò riguarda, in particolare, i 4 paesi che con gli Stati Uniti fanno parte del Quadrilateral security dialogue, ovvero il Giappone, l’Australia e l’India. Il Giappone e l’Australia, costretti dall’esigenza di rilanciare l’economica nazionale (e non vedersi fuori dai giochi) si trovano ora più vicini all’orbita di Pechino. Le regole del libero scambio, dunque, sembrano essere sotto l’egida della Cina, e Biden dovrà faticare per riemergere dall’isolazionismo degli ultimi quattro anni e rientrare nei giochi. Gli accordi regionali, che in passato hanno rappresentato un’eccezione, ora stanno diventando la regola, a cui l’Organizzazione Mondiale del Commercio assiste da spettatore impotente, a spese di un plausibile rilancio della liberalizzazione degli scambi globali. Ad ogni modo, la riduzione di barriere commerciali e, quindi, una maggiore integrazione economica, pur se non generalizzati, costituiscono una politica commerciale utile, che aumenta l’efficienza economica. I prossimi anni ci confermeranno se è giusto parlare di una globalizzazione ormai regionalizzata.