Opinioni

L’Autonomia differenziata fa a botte con l’Italia unita e la Costituzione

In questi giorni il dibattito politico italiano è fortemente caratterizzato sulla riforma, pronto un disegno di legge

In questi giorni il dibattito politico italiano è fortemente caratterizzato dal nodo dell’Autonomia differenziata. Il tutto nasce da tre proposte pervenute dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna e dalla circostanza che, in data 8.11.2022, il Governo ha messo in discussione un disegno di legge finalizzato a darvi seguito.

Per intendere la portata della questione serve ricostruire i passi che hanno portato a tale stadio.

Con legge costituzionale n. 3 del 18.10.2001 è stata approvata una riforma che, nell’intesa di depotenziare il centralismo statuale disegnato dai Costituenti del 1948, ha riordinato l’intero titolo V della Costituzione e, cioè, il sistema di riparto dei poteri tra Stato e Regioni. In particolare, sono state rinforzate le prerogative di queste ultime, sia sul versante legislativo che su quello gestionale, nel contempo riducendo l’area delle funzioni spettanti allo Stato. Segno di quanto sopra il novellato art. 117, il cui comma 4, ribaltando il principio di residualità prima incentrato sullo Stato, lo ha focalizzato sulle Regioni: Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione riservata dello Stato.

Un cambio di visione radicale, che ha trovato espressione nella recisione delle potestà esclusive assegnate allo Stato centrale (art. 117 comma 2: difesa, giustizia, politica estera e militare, etc..) e nell’estensione della potestà legislativa concorrente delle regioni, allargata, pur nel solco di principi spettanti allo Stato, ad una sequela di materie di estrema rilevanza: sicurezza nel lavoro, rapporti internazionali delle regioni, commercio con l’estero, tutela e sicurezza nel lavoro, istruzione, tutela della salute, ricerca scientifica, protezione civile, porti ed aeroporti civili, ordinamento della comunicazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, coordinamento della finanza pubblica e sistema tributario, casse di risparmio , previdenza previdenziale e complementare, etc. (art. 117 comma 3).

Il tutto, facendo scomparire un elemento di salvaguardia cruciale, la necessaria coesione della legislazione regionale “con l’interesse nazionale e con quello di altre regioni”, prima presente nell’art. 117 vecchio testo. Tale dilatazione della platea delle materie spettanti ha avuto un corrispettivo nell’entità delle risorse disponibili. Il nuovo art. 119 Cost. ha, infatti, previsto che I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa” (comma 1) e dispongono di risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio. (comma 2).

Inevitabili le conseguenze registrate: lievitazione dei livelli di tassazione globale, spostamento diseguale di risorse, sulla base del principio della spesa storica, dal centro alle periferie; incremento dell’indebitamento complessivo. In definitiva, la forbice tra le varie Regioni piuttosto che sanarsi è andata espandendosi.

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Tuttavia, la riforma del Titolo V non si è fermata qui. Essa ha assunto un elemento ancora più insidioso ed erosivo per l’unità Nazionale. Ha infatti previsto, con l’art. 116 comma 3, che Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata. Una norma capace, se letta in controluce, di erodere ulteriormente le prerogative dello Stato, con riferimento: 1) a materie di sua competenza legislativa esclusiva (art. 117 secondo comma), enumerate alle lettere l) (giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa), ancorchè limitatamente dall’organizzazione della giustizia di pace; n) (norme generali sull’istruzione) ed s) (tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali); 2) a tutte le materie destinate a legislazione concorrente (art. 117 comma 3), come sopra succintamente elencate.

La narrazione vuole che tale ulteriore intervento di riordino costituzionale abbia corrisposto alla necessità di valorizzare maggiormente i territori, accentuandone l’autosufficienza e la capacità di autodeterminazione. Tuttavia, il tema è se tale prospettiva sia compatibile con l’obiettivo di unità ed indivisibilità della Nazione, fissato in defettibilmente dall’art. 5 della Costituzione. Ebbene, sommando l’art. 116 comma 3 agli esiti ampiamente devolutivi già contenuti nel nuovo art. 117, appare evidente che intento dei costituenti del 2001 sia stato quello di svincolare pienamente le Regioni interessate, nelle materie indicate dall’art. 116 comma 3, dal potere di indirizzo e di regolazione dello Stato, avvicinandole, così, ad uno status di istituzioni sovrane.

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Le richieste di maggiore autonomia pervenute dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna si innestano in questo solco concettuale e sono riferite, sostanzialmente, a tutte le materie potenzialmente contendibili ex art. 116 comma 3 della Costituzione. Ne è seguito l’avvio di un percorso attuativo, che ha avuto espressione nel disegno di legge 8.11.2022 recante Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’art. 116, terzo comma, della Costituzione. E’ utile scorrerne i contenuti, allo scopo di verificare la direzione verso cui intende andare.

In premessa, in maniera formalmente corretta, il d.d.l. ha stabilito che condizione imprescindibile perché sia dato esito alle domande avanzate dalle Regioni è la fissazione dei LEP (Livelli essenziali delle prestazioni), in armonia a quanto prescrive l’art. 117 comma 2 lett. m) della Costituzione, che ne attribuisce la competenza esclusiva ad una legge dello Stato. Ha così previsto, all’art. 3 comma 2, che ogni Intesa con le regioni interessate va fatta precedere dalla definizione dei LEP, da adottarsi nel termine di 12 mesi, con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Già in tale passaggio si annida un primo, severo, dubbio di costituzionalità: può l’approvazione dei LEP affidarsi ad un DPCM, vista la forma legislativa pretesa dall’art. 117 comma 2 lett. m)? La risposta è certamente no, non essendo i principi costituzionali contendibili per mano di una legge ordinaria. Né il tema è puramente formale. Esso ha precise ricadute valoriali, giacchè è ben diverso assegnare ad un organismo monocratico, per quanto autorevole, la fissazione di livelli prestazionali che attengono ai fondamentali “diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (art. 117 comma 2 lett. m), piuttosto che al Parlamento, Organo direttamente rappresentativo della sovranità popolare ed espressamente preposto dalla Costituzione. Al netto di ogni valutazione giuridica, insomma, risuona il dubbio che, dopo 21 anni di silenzio, si voglia fare in fretta, evidentemente anche a prezzo delle garanzie dettate dalla stessa Costituzione.

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Tuttavia, i dubbi di legittimità non si fermano qui.

Il ddl precisa, all’art. 2 comma 2, che L’atto o gli atti d’iniziativa di ciascuna Regione relativi all’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, possono riguardare una o più materie, senza fissazione, dunque, di alcun limite quantitativo o qualitativo. La platea delle materie contendibili, dunque, è assoluta e riguarda così quelle di competenza esclusiva dello Stato (art. 117 comma 2 lett.l., n. ed s.) individuate dall’art. 116 comma 3, come quelle a legislazione concorrente (art. 117 comma 3). Né è previsto un approccio per transizioni successive, in modo da favorire l’assestamento e la verifica degli equilibri istituzionali incisi. Anche questo dato non appare coerente con il principio di salvaguardia dell’unità nazionale e meriterebbe una severa riflessione, anche sul piano costituzionale.

Il successivo comma 3 stabilisce, poi, che Lo schema di intesa preliminare negoziato fra Stato e Regione è approvato dal Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro delegato per gli affari regionali e le autonomie, ed è poi sottoscritto dal Presidente del Consiglio dei ministri e dal Presidente della Giunta regionale. In questa fase manca, come si nota, un previo passaggio parlamentare che, pure, sarebbe necessario per presidiare la complessità dei fattori (finanziari, funzionali, sociali) coinvolti. Tale passaggio è invece previsto nel transito successivo (comma 4), che prevede che Lo schema di intesa preliminare di cui al comma 3, dopo la sottoscrizione, è immediatamente trasmesso alle Camere per l’espressione del parere da parte della Commissione parlamentare per le questioni regionali di cui all’articolo 126, primo comma, della Costituzione. Il parere è reso entro trenta giorni dalla data di trasmissione dello schema di intesa preliminare, audìto il Presidente della Giunta regionale. E tuttavia, l’apertura alle Camere è asfittica, quasi tollerata. Ed invero, non le assemblee sono chiamate a pronunciarsi sull’Intesa, ma la Commissione Regionale per le questioni regionali, officiata peraltro di un’attività meramente consultiva (per l’espressione del parere). Tanto è vero che il comma 5 chiarisce che, Una volta espresso il parere di cui al comma 4 e comunque decorso il termine di trenta giorni, il Presidente del Consiglio dei ministri o il Ministro delegato per gli affari regionali e le autonomie predispone lo schema di intesa definitivo, tenuto conto del parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Lo schema di intesa definitivo, a conclusione dell’ulteriore negoziato, è trasmesso alla Regione interessata, che lo approva secondo le modalità e le forme stabilite nell’ambito della propria autonomia statutaria. Entro trenta giorni dalla data della comunicazione dell’approvazione da parte della Regione, lo schema di intesa definitivo è deliberato dal Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro delegato per gli affari regionali e le autonomie. Come è facile evincere, nel costrutto del d.d.l., il ruolo del Parlamento è opaco, quasi impercettibile, rimanendo la responsabilità decisorie in testa al Governo e, poco più giù, alle Regioni interessate.

Ma non basta. C’è un passaggio ancora più lesivo delle prerogative del Parlamento, tale da generare un autentico conflitto di attribuzione. Esso è contenuto all’interno dell’art. 2 comma 5, in cuo è precisato che Contestualmente allo schema di intesa definitivo, il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro delegato per gli affari regionali e le autonomie, approva un disegno di legge di mera approvazione dell’intesa, da presentare alle Camere ai sensi dell’articolo 71 della Costituzione, di cui l’intesa, così come approvata dal Consiglio dei Ministri medesimo, costituisce allegato. Alla seduta del Consiglio dei Ministri per l’esame dello schema di disegno di legge partecipa il Presidente della Giunta regionale. Dunque, il Parlamento non viene investito nella pienezza delle sue funzioni, ma semplicemente per ratificare, mediante “mera approvazione”, l’Intesa approvata dal’Esecutivo e concordata con le Regioni. Un dato non solo contrastante con la disciplina costituzionale, ma anche profondamente umiliante per la sovranità e l’autodichìa del Parlamento.

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In tutto questo, il comma 5 lascia aperti, oltre quelli già esposti, altri dubbi di legittimità.

Il primo: visto che è data l’eventualità che la Commissione parlamentare non enunci il suo parere nel termine di trenta giorni (Una volta espresso il parere di cui al comma 4 e comunque decorso il termine di trenta giorni, il Presidente del Consiglio dei ministri o il Ministro delegato per gli affari regionali e le autonomie predispone lo schema di intesa…) e considerato che il Governo è chiamato ad approvare lo schema definitivo tenuto conto del parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali, come sarebbe possibile tale adempimento in mancanza del presupposto (parere della Commissione Parlamentare) che lo stesso disegno di legge prescrive come indefettibile e del quale dispone doversi tener conto? Il dato è maggiormente saliente, considerata la fonte del parere che, provenendo dal Parlamento, assume veste per un verso obbligatoria, per altro verso vincolante o, a tutto concedere, parzialmente vincolante.

Il secondo: cosa accade se, nel termine di trenta giorni, il Consiglio dei Ministri non approvi l’intesa definitiva e, con essa, il ddl da sottoporre all’approvazione del Parlamento, ancorchè ai fini di una “mera approvazione”? Trattasi di termine perentorio o ordinatorio? Il silenzio del Consiglio dei Ministri va inteso, tecnicamente, come rifiuto, con conseguente arresto dell’intero iter? Non sono questioni di poco conto, giacchè, sullo sfondo, vi è il futuro assetto del Paese.

Il terzo: è costituzionalmente legittimo che una legge ordinaria possa imporre al Parlamento come e cosa debba fare, riducendolo a funzioni quasi notarili, sia nella fase di espressione del parere (esautorazione dell’Aula e preposizione della sola Commissione per le questioni regionali), sia in quella di approvazione definitiva, risolta a “mera approvazione dell’Intesa”? Dove è finita l’autonomia delle Camere? Può una legge ordinaria travolgerne i Regolamenti e stabilire, dall’esterno, le modalità di valutazione ed approvazione spettanti? Tutto questo, peraltro, in dispregio sinanco dell’art. 116 comma 3 che, ripudiando il principio della “mera approvazione”, pretende che La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata. Né, per essere ancora più chiari, il criterio è frutto di un refuso terminologico. Esso è ribadito dal comma 8, in cui si conferma che Il disegno di legge di cui al comma 5, cui sono allegate l’intesa e la relazione di cui al comma 6, è immediatamente trasmesso alle Camere ai fini della mera approvazione a maggioranza assoluta dei componenti, ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione.

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Sarebbe abbastanza per dubitare della correttezza costituzionale del disegno di legge 8.11.2022.

Purtroppo, c’è dell’altro. A dettagliare che trattasi di una riforma non solidale, ma spinta da fattori territoriali e differenziali, l’art. 3 comma 2 punto b) del ddl precisa che i livelli essenziali delle prestazioni (LEP), premessa imprescindibile per dar luogo al trasferimento di funzioni (art. 3 comma 1), se non pervenuti entro dodici mesi, potranno sic et simpliciter essere omessi e sostituiti dalla c.d. spesa storica. Nel dettaglio, la norma precisa che, fino alla determinazione dei livelli essenziali nelle materie di cui al comma 1, per la determinazione, ai sensi dell’articolo 4, comma 1, delle risorse corrispondenti alle funzioni oggetto di trasferimento si applica il criterio della spesa storica sostenuta dalle amministrazioni statali nella Regione per l’erogazione dei servizi pubblici corrispondenti alle funzioni trasferite; qualora la legge statale stabilisca successivamente livelli essenziali delle prestazioni in tali materie, la Regione interessata è tenuta all’osservanza e, in caso di inosservanza, si applica l’articolo 120, comma secondo, della Costituzione. In sostanza la norma, quasi presagendo l’impossibilità di ottenere nel breve i LEP pretesi, offre al Governo ed alle Regioni un formidabile abbrivio, la spesa storica, così condannando il Paese alla perpetuazione delle diseguaglianze che proprio quel criterio ha prodotto. Senza dire che detta modalità risulta altresì anche collidere con quella dei fabbisogni standard, introdotta dall’art. 1 dlgs 42/2009 per sostituire gradualmente, per tutti i livelli di governo, il criterio della spesa storica.

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Tuttavia, c’è un ulteriore argomento a rendere insidioso il ddl 8.11.2022. E’ del tutto evidente che la devoluzione di competenze alle regioni differenziate implica una omologa devoluzione di risorse. Il che comporterà una inevitabile depauperazione del bilancio dello Stato ed un arricchimento corrispettivo di quello delle Regioni interessate. In questo quadro, sfuggono i vincoli solidali posti dall’art. 119 Cost., che imporrebbero interventi aggiuntivi in favore dei territori più fragili. Né è credibile il principio di invarianza fissato dall’art. 7 comma 1 (Dall’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non derivano maggiori oneri a carico della finanza pubblica ). L’obiettivo è smentito dal precedente art. 4, a mente del quale L’intesa di cui all’articolo 2 individua altresì le modalità di finanziamento delle funzioni attribuite tra la riserva di aliquota o le compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale, tali da consentire l’integrale finanziamento delle funzioni trasferite, in coerenza con l’articolo 119, quarto comma, della Costituzione. Sommando il criterio della spesa storica, con quello della compartecipazione ai gettiti erariali, il principio di invarianza appare non più che una elegante petizione di principio, priva di ragionevole sostenibilità. Così come, per derivazione, risulta non sostenibile la successiva annotazione, contenuta nell’art. 8, a mente della quale Le intese concluse in attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, non pregiudicano la promozione dello sviluppo economico, della coesione e della solidarietà sociale, la rimozione degli squilibri economici e sociali e il perseguimento delle ulteriori finalità di cui all’articolo 119, quinto comma, della Costituzione. Con quali risorse, vista la sottrazione di risorse che l’autonomia differenziata genererà?

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Per concludere, il tema è aperto e, per quanto se ne sa, pare che il Governo stia operando per il miglioramento del testo. Il fatto è che questo, a costituzione invariata, non potrà bastare. Credo invece che serva al Paese un passo indietro, che porti ad un fermo ripensamento della riforma del 2001 e restituisca, certo con la necessaria appropriatezza, una nuova centralità allo Stato, attraverso: a) il recupero di molte delle materie devolute alla competenza legislativa concorrente delle Regioni (es. salute, istruzione, università, ricerca scientifica e tecnologica, lavoro, beni culturali, tutela dell’ambiente, rifiuti, etc.); b) la ricostituzione della primazìa dell’interesse nazionale, anche nelle materie assegnate alla competenza delle Regioni. Serve inoltre, a mio parere, espungere integralmente l’art. 116 comma 3 della Costituzione, irragionevole in una Nazione dalle dimensioni territoriali non tali da giustificare 20 micro-stati. A tutto concedere, servirà emendare fermamente l’art. 116 comma 3, in primis imponendo una precisa causale differenziale, con decisa riduzione delle materie passibili di concordato, quindi prescrivendo una approvazione finale dell’Intesa con legge costituzionale.

Fuori da tale prospettiva, c’è il rischio di una navigazione a vista, utile cioè per ottenere uno scopo prossimo, ma priva di sguardo per lo scopo remoto. E, si sa, la navigazione a vista spesso finisce sugli scogli.

Domenico Sorace- Avvocato