Cultura

Il vibonese Aldo Borelli, giornalista galantuomo o megafono del fascismo?

Nato a Monteleone (Vibo Valentia), diresse la Nazione e il Corriere della Sera, dove lanciò – tra gli altri – Indro Montanelli e Dino Buzzati.

Da quando furono impiantate le prime vere officine tipografiche iniziarono a nascere giornali in tutta Italia. Anche la Calabria ebbe i suoi fogli di informazione, il primo in assoluto vide l’impressione nell’inchiostro del torchio a Vibo Valentia, allora Monteleone, nella tipografia di Giuseppe Verriele e porta la data del 18 gennaio 1808. Nasceva così il Giornale dell’Intendenza della Calabria Ultrà. Ne seguirono tanti altri nella città che fu Hipponion greca che nell’ottocento divenne una fucina di generazioni di giornalisti.

Uno di questi è Aldo Borelli, nato a Monteleone il 2 febbraio 1890. Formatosi al Regio Liceo Filangieri, aveva respirato aria di giornalismo fin dalla nascita e nel 1906 aveva lasciato la Calabria, per trasferirsi a Roma. Nella Capitale fa il suo esordio nel giornalismo come redattore del quotidiano romano L’Alfiere.

La sua è una carriera fulminante, le sue doti gli fanno percorrere buona parte della penisola nei giornali di avanguardia. Nel 1912 diviene corrispondente de Il Mattino, facendo propria l’impostazione antigiolittiana e antisocialista del giornale. Il 10 marzo 1915 assume la direzione della Nazione. Siamo alla vigilia della Grande Guerra, fino ad allora il giornale fiorentino era schierato per il neutralismo giolittiano, Borelli lo traghetta sul fronte interventista.

Il triennio bellico vede rifiorire le fortune della Nazione con largo spazio alle corrispondenze di guerra e la pubblicazione di edizioni provinciali, il giornale conosce un crescente successo. Questa abilità ed intelligenza giornalistica lo porta alla guida del Corriere della Sera.

Borelli con la principessa del Belgio mostra le rotative del Corriere

Borelli è un giornalista di razza, creativo, ingegnoso, aperto, anche se limitato nella sua attività (più di una volta si lamenta della egemonia della agenzia Stefani) riesce a difendere un barlume di libertà per i suoi collaboratori, dando spazio a tutta una serie di giovani giornalisti che diverranno il nerbo della grande stampa di informazione dell’Italia post-fascista, come Arturo Lanocita, Michele Mottola, Dino Buzzati, Guido Piovene, Gaetano Afeltra, Luigi Barzini e Indro Montanelli.

Borelli sa che all’interno del giornale c’è un nucleo antifascista e che fa? Lo “copre” e lo protegge, come ricorderà in seguito Afeltra. E’ già tanto in un periodo in cui tutto è filtrato dalle veline che impongono persino titoli e collocazione degli articoli del regime su tutti i giornali. Nel 1942 assume anche Corrado De Vita, scrittore, che diverrà una delle figure di spicco della Resistenza, ma sul lavoro redattore diligente e disciplinato. Borelli lo sapeva, sapeva quali pesci avesse in barca e il giovane Montanelli lo ammirava e lo temeva. Nell’articolo sulla morte di Borelli, pubblicato sul Corriere della Sera il 3 agosto 1965, darà atto della sua indole e della sua professionalità. “Borelli era consapevole che il suo telefono era sotto controllo, lo usava spesso per fare scenate ai giornalisti a conferma della sua autorità – scrive Montanelli – e a volte non nascondeva di essere consapevole delle menzogne imposte dal regime”.

Borelli deve ingegnarsi, e si ingegna, a dare spazio alla creatività sia quando deve mantenere il livello culturale del giornale, sia quando deve difendere i suoi giovani redattori. E’ lui a coprire i pochi non in possesso della tessera fascista, dimostrando lungimiranza e professionalità.

L’ultimo numero del Corriere della Sera firmato da Aldo Borelli

Sotto la sua direzione il Corriere si modernizza e acquista un volto nuovo più fresco ed accattivante: viene adottata l’impaginazione a nove colonne e aumentate le foto, la vecchia tipografia di via Solferino viene dotata di moderne rotative. In un periodo in cui la situazione politica limita enormemente gli argomenti che il giornale può trattare con sufficiente libertà, Borelli decide di incrementare i servizi dall’estero, compresi i resoconti di viaggi, e la pagina sportiva. Anche la terza pagina riceve attente cure.

Sono tante le firme di prestigio che egli chiama a collaborare, scrittori, intellettuali e studiosi di vario indirizzo (Baldini, Bontempelli, Brancati, Cecchi, Pasquali, Volpe) che ne fecero una vera e propria istituzione culturale. In politica estera, nonostante le direttive del regime, il Corriere è sempre più sobrio di tutte le altre testate nazionali ed in più Borelli sa garantire anche ad antifascisti e moderati una collaborazione discreta che li salva dalla miseria.

Un indice del suo modo di essere emerge in due episodi. Il primo è quando si schiera con Augusto Turati che, caduto in disgrazia nell’autunno 1930, viene costretto ad abbandonare la segreteria del partito fascista ed inviato in esilio a Rodi. Borelli solidarizza con lui e alla fine del 1930 pubblica alcuni suoi articoli su argomenti sindacali, attirandosi i rimproveri delle più alte gerarchie fasciste. Il secondo quando difende a spada tratta Curzio Malaparte, arrestato nel 1933 dal regime, e riesce ad affidargli una rubrica seppure sotto lo pseudonimo di Candido. Non è un caso che nelle informative di polizia, viene segnalato come un liberaloide.

Aldo Borelli con i gerarchi all’ingresso della tipografia del Corriere della Sera

Si sposa nell’ottobre 1935 con la danzatrice Evgenija Ruvscenko, nota con lo pseudonimo Jia Ruskaja, fuggita dalla Russia dopo la rivoluzione d’ottobre e di dodici anni più giovane. Appena fresco di nozze, Borelli parte per l’Etiopia, dove partecipa alle ostilità con il grado di sottotenente di artiglieria; presente alle battaglie di Debri Hotzà e dell’Endertà, nel luglio 1936 viene promosso tenente per merito di guerra.

Alla caduta del fascismo, viene rimosso dal Corriere.

“Borelli giunse al giornale nel tardo pomeriggio del 26 luglio, venendo da Roma… Gli eravamo intorno tutti. Gran silenzio, grande imbarazzo, Capimmo che non si era reso conto che la situazione era cambiata. Credeva di poter fare finalmente un giornale libero, un giornale senza veline. Cominciò a impartire disposizioni ai redattori-capi che lo ascoltavano perplessi. Fu un momento di imbarazzo… Finché Bruno Fallaci prese coraggio e brutalmente, con freddezza toscana, gli disse: «Direttore, lei il giornale non lo fa più!». Non c’era nessuna revanche, nessuna animosità nei confronti del direttore galantuomo: solo la constatazione della nuova realtà. Borelli si accasciò sulla poltrona pallidissimo…”. Così Gaetano Afeltra ricorda quella giornata del 1943 in cui si conclude la lunga carriera di Aldo Borelli alla guida del Corriere della Sera, dove si era insediato il 1° settembre 1929.

Per molti mesi rimane nascosto in un convento a Roma. Dopo la Liberazione viene colpito da mandato di cattura, ma viene in seguito amnistiato.

Il dopoguerra lo vede ancora impegnato nell’attività editoriale e giornalistica: direttore amministrativo del quotidiano romano Il Tempo fino al 1948, diviene poi capo dell’ufficio romano del settimanale Epoca e in seguito del settore periodici Mondadori; dal 1955 al 1958 è direttore della Cines e assume, infine, la presidenza del gruppo editoriale Giornale d’Italia Tribuna. Muore a Roma il 2 agosto 1965.

Così lo ricorda Indro Montanelli, la cui carriera inizia proprio con Borelli il 9 settembre 1938: “Un uomo d’oro, bravo, dal cuore grande così, talmente irsuto che doveva spostare i peli con un soffio per vedere il quadrante dell’orologio. Difese tutti i suoi redattori antifascisti, ma di questo nessuno gliene fu mai grato”.

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