Cultura

Far rinascere la Tonnara di Bivona con i canti, le foto, nel segno di Lomax e Carpitella

Oggi , interessante convegno sulle ricerche dello studioso americano, Sarà presente la figlia Anna.

Nel 1954 Alan Lomax e Diego Carpitella, nell’ambito di una rilevazione etnomusicologica condotta in varie parti d’Italia (e in molte località della Calabria) incontrarono i marinai e i pescatori della Tonnara di Bivona (Vibo Valentia), ne ascoltarono i racconti e ne registrarono i canti. Alan Lomax, che era già un mito per tutta la cultura musicale mondiale, fece anche delle fotografie eccezionali, intense, bellissime.

Le foto di Alan Lomax alla Tonnara di Bivona nel 1954

Conoscevo questi lavori, fin da quando, al secondo anno di Università, ebbi la fortuna di incontrare Diego Carpitella, ormai, specie per i lavori fatti assieme a De Martino, era una figura mitica e insegnava Storia delle tradizione popolari. Adesso quella esplorazione breve, ma intensa, a Bivona e Vibo Marina, diventa una mostra, un libro, una “restituzione” nel corso di un Convegno in cui sarà presente Anna, etnomusicologa, di Anna Loman Wood, figlia di Alan (alla quale dò il mio bentornata) e alcuni dei maggiori studiosi italiani di etnomusicologia e storici e antropologi che parleranno del rapporto tra calabresi e mare, della pesca, della cultura marinara, delle tonnare (si guardi la locandina). L’iniziativa è stata ideata e organizzata da Danilo Gatto, realizzata dal Sistema Bibliotecario Vibonese, con il patrocinio del Comune di Vibo.

Penso, e non certo perché sono tra i protagonisti, di un avvenimento culturale eccezionale, che offre non poche indicazioni su come anche in Calabria, con pochi soldi, si potrebbero creare centri stabili di cultura, dove custodire, valorizzare, rendere fruibili i prodotti alti della tradizione popolare e colta della regione, con uno sguardo rivolto al futuro. Spero che questa non sia la solita iniziativa effimera, ma diventi occasione per creare qualcosa di duraturo e di stabile.

La locandina dell’iniziativa

Un post nel post. Il mio rapporto con Diego Carpitella

Era il 1971 – sono passati 50 anni? – e per un qualche disguido, una mia distrazione, della quale non parto, mi ritrovai, appena iscritto a Filosofia a Roma, soldato di leva, prima a Cagliari e poi a Roma. Non potevo perdere tempo, non me lo potevo permettere, dovevo continuare in maniera intensiva gli studi. Da Viale delle Milizie mi recavo alla Sapienza e trovavo il mio posto sempre libero nella e Biblioteca di Lettere e Filosofia o presso l’Alessandrina. Panino, riposo, caffè. Qualche volta mi addormentavo perché avevo studiato tutta la notte e i compagni della lunga scrivania, con un sorriso, svegliavano lo studente vestito da militare.

Un giorno uno studente di Sant’Andrea sullo Ionio, Marcello Lijoi con cui sono rimasto fraterno amico, mi disse se volevo fare un esame con un bel programma e nemmeno difficile. Sentii parlare del corso di Storia delle tradizioni popolari, tenuto da Diego Carpitella. Mi recai alla bacheca al primo piano, vidi il programma, tra cui un libro di Lombardi Satriani dal titolo “Contenuti ambivalenti nel folklore calabrese”. Non riuscivo bene a legare quei due termini. La contestazione mi era chiara, ma il folklore era qualcosa da cui volevo allontanarmi. Anche quei libri sulle musiche popolari e di etnofolk (e le denominazioni sono varie) mi suonavano strane, innamorato com’ero della musica rock americana, dei Beatles, Rolling Stones, dei cantautori italiani e anche delle canzonette delle prime feste da ballo in paese, che ascoltavamo alla casa dello studente.

Avrei capito dopo che i Dylan e gli Springsteen dei miei anni migliori erano nati anche per le ricerche e gli scavi fatti da Lomax. Decisi di seguire i corsi di Carpitella. Usciva dalla sua stanza cinque minuti prima della lezione, accompagnato da una sua assistente non giovanissima, che portava sotto braccio un Nagra. Andavamo in un’aula e ci ritrovavamo sempre gli stessi, non più di una ventina di persone.

Carpitella era un uomo bassino, con una camminata inconfondibile, una sorta di bonario folletto, che col tempo avrei scoperto dotato di una grande ironia. Con battute facili e fulminanti. Ci faceva ascoltare registrazioni che all’inizio mi sembravano ostiche, quelle da cui ero fuggito, perché erano legate al paese stretto, della fame e della fatica, ma lentamente scoprivo la passione con cui Carpitella ne parlava, coglievo aspetti e sfumature che mi erano sfuggiti. Aveva effettuato ricerche in tutta Italia, alcune con Lomax negli anni Cinquanta, altriecon Ernesto De Martino.

I tonnaroti nella mattanza cantano, un’altra foto di Alan Lomax a Bivona nel 1954

Cominciai a capire che era stato uno dei protagonisti di una stagione mitica della ricerca al Sud, dell’etnomusicologia, della folk music americana, dell’etonografia demartiniana. Alla fine delle lezioni, pure timidamente, e lui non faceva nulla per togliere soggezione, forse timido anche lui, mi fermavo a chiedere, a parlare e lentamente cominciò ad aprirsi, a raccontarsi. Un giorno mi chiese lui originario di Reggio Calabria, della mia terra, delle mie zone, della famiglia. Amava spesso raccontarmi, forse perché anch’io calabrese, delle ricerche e delle registrazioni compiute con Alan Lomax in Calabria nell’agosto del 1954. Ricordava con grande partecipazione la breve, ma intensa esperienza, vissuta in luoghi segnati dalla miseria e dalla bellezza, popolata da genti insieme gioiose e melanconiche, alle prese con problemi quotidiani ma anche profondamente ospitali, accoglienti e disponibili.

Intanto i libri che cominciavo a leggere mi facevano rivisitare in maniera diversa quel mondo di provenienza da cui fuggivo, che volevo contestare e che volevo cambiare. Chissà perché cominciai a pensare che il mutamento consisteva forse nel conservare, nel resistere ai mutamenti che imprimeva la società di massa. Intanto seguivo altre materie di antropologia, di filosofia, di filosofia del diritto. Andavo – chi lo avrebbe detto anche a concerti di musica popolare.

Quando Carpitella organizzò il primo convegno di Etnomusicologia, ormai alla fine degli esami e con la tesi già avanzata,mi propose di fare parte della segreteria dei giovani organizzatori. Conobbi nomi mitici dell’antropologia e dell’etnomusicologia. “Perché non fa una tesi sulla Calabria?” Mi disse un giorno Carpitella, traducendo quello che in mille modi gli avevo già chiesto. Dissi subito sì e cominciammo a parlare dell’argomento. “La magia popolare nel suo paese di origine”, disse. Lessi quanto più possibili libri sull’argomento, scesi in paese, cercai materiale, trovai formule e credenze, un orizzonte magico di cui non mi ero accorto. Cominciai a scrivere e ad organizzare il materiale.

Scrissi molte pagine e portai documenti e registrazioni fatte su un Philips. “E allora?” Mi disse Carpitella tra il curioso e il divertito. “Ho trovato tanto, professore”, dissi, “ma ho l’impressione che quanto potrei dire è stato già detto: non penso di poter aggiungere molto alle cose di De Martino tutt’al più offrire varianti o nuovi documenti”. C’era un po’ di timida presunzione nel voler cercare qualcosa di nuovo e di originale. Guardò i fogli e i quaderni degli appunti e disse: “Interessante, bravo, perché non facciamo una tesi sull’eros nel mondo popolare”. Lo guardai stupito.”Sa – mi disse- è un argomento su cui un etnografo calabrese, Raffaele Corso, ha scritto un libro in tedesco perché in Italia, durante il fascismo, non poteva pubblicarlo e poi lei ha buoni rapporti con la gente che potrebbe raccontarle cose utili. Lessi, ma non c’era molto sull’argomento. Scesi di nuovo in paese, a casa, domandai qualcosa a mio padre. Intanto la lotta per le elezioni amministrative si faceva accanita e intensa, crudele come erano le beghe nei paesi, e così nelle nostre riunioni e mangiate, i compagni giravamo nelle case e poi mi intrattenevo con donne e uomini e chiedevo di tutto, anche storie personali. Trovai un materale utile. Molte donne si fidavano di me e con stupore ascoltai anche storie di aborti, tradimenti. Modi di dire e canti. Solitudine e privazioni. Regime maschile e patriarcale e trasgressioni. Tornai da Carpitella. “Bravo – mi disse – è un materiale eccezionale, continui…”. Mi rimisi a leggere i “francesi” e Corso, Simone De Beauvoir e le prime riflessioni femministe e poi folkloristi che avevano raccolto di tutto: rapporti di uomini con animali, storie di filtri magici. Un giorno mi disse: ” Ci siamo, che bel materiale, verrà una tesi originale, la pubblicheremo…”. Poi mi mi guardò e mi disse con un certo imbarazzo: “Teti, ma è sicuro che alla commissione di laurea possiamo presentare questo materiale, magari ci rideranno, bigotti come sono, e faranno battutine”. Quel materiale rimase tra le tante cartelle di documenti inediti assieme ad altri che si sarebbero accumulati negli anni. E un giorno mi chiese di raccontargli della condizione del paese, dei contadini e degli emigrati, e dei loro figli che facevano politica. Non so come gli parlai di un’inchiesta sui consumi alimentari fatto nel Sessantotto. Si fermò e ci salutammo.

Quando ci rivedemmo mi disse: “Perché non facciamo una tesi sull’alimentazione e l’ideologia alimentare delle popolazioni?” “Cosa? “Volevo dire. Ma se so benissimo – pensavo – cosa mangiano e come le persone. Non mi sembrava un argomento originale. E lui, quasi intuendo le mie perplessità mi disse: “guardi che un bell’argomento, ne hanno scritto in pochi, forse in Francia e non creda che troverà una vasta bibliografia: dovrà concentrarsi sulla ricerca etnografica, andare per campagne e paesi, fare un questionario e osservare”. Più convinto che persuaso, come si soleva dire, cominciai le prime ricerche nelle biblioteca e anche alla Nazionale.

E senza, saperlo, cominciavo così a costruire uno dei primi, se non il primo, lavori di antropologia alimentare in Italia, nello stesso tempo in cui – l’argomento era nell’aria – Massimo Montanari, con cui poi sarei diventato amico, iniziava ad aprire un filone di storia dell’alimentazione nel Medioevo. Carpitella, che praticamente si limitava ad ascoltarmi e a leggere, ormai mi aveva lasciato libero in un viaggio che lui non aveva percorso e controllato. Le posizioni di Carpitella, da cui presi le mosse per i miei “sondaggi” portavano direttamente a Gramsci e alle sue famose osservazioni sul folklore, al variegato interesse culturale e “politico” che conosceva il Mezzogiorno a partire dalla fine della guerra e dall’uscita di “Cristo si è fermato ad Eboli” di Levi, alle celebri indagini etnografiche di Ernesto De Martino, ai lavori di Emilio Sereni e alle raccolte dei folkloristi. I miei primi passi di ricercatore del mondo popolare -con un’iniziale “sorpresa” di dover diversamente “tornare” a quel mondo da cui avevo immaginato di fuggire- avvenivano in un periodo in cui le culture folkloriche erano al centro di una complessa e ambigua attenzione ad opera di studiosi, operatori culturali, movimenti giovanili, media, industrie alimentari.

Come scriveva, con felice espressione Luigi M. Lombardi Satriani, il “folklore era uscito dal ghetto” e diventava sia oggetto di riflessioni storico-antropologiche sia di consumo e di strumentalizzazione. Esula da questa memoria l’intento di ricostruire un’avvincente stagione di studi e di interesse per le culture popolari, che vide, a vario titolo, impegnati -spesso con vicinanze e differenze di natura “ideologica”- i maggiori studiosi delle discipline demo-etno-antropologiche, alcuni dei quali sono nel pieno della loro attività scientifica e di ricerca.

Pure all’interno di una tradizione di studi che approssimativamente potremmo definire gramsciana e demartiniana, dove costante era il riferimento alle condizioni materiali delle popolazioni, a quelle che marxianamente venivano definite condizioni strutturali, l’attenzione per il “fatto alimentare” era soltanto enunciata e non si traduceva mai in concrete esperienze di ricerche, come pure era avvenuto in altre tradizioni antropologiche europee e americane. E poi c’erano Barthes, Lévi-Strauss e ci furono i sei mesi che impiegai per leggere la sua “Mitologica” e il “morzello” che consumavo all’alba con i contadini di Chiaravalle prima che andassero a lavorare nei campi. Giravo a passaggi e con un registratore a cassette e non riuscivo bene a fare capire cosa andassi facendo.

Mi laureai con un tesi (correlatore Gilberto Mazzoleni) nel 1974 e la avrei pubblicata nel 1976 con il titolo “Il pane, la beffa e la festa” (Guarldi), con prefazione di Lombardi Satriani, e fu un successo di critica e di pubblico. Uno dei ricordi più belli fu quando vidi citato quel libro da Cirese nel suo lavoro sui musei. Quando, negli anni incontravo, Carpitella, il nostro saluto rituale era:”Teti, lo sa che non ho mai capito perché non abbiamo fatto quella tesi sull’eros popolare”. Io sorridevo, mentre lui si faceva serio, e dicevo: “Professore, e chi lo sa?”. Quello che non so è perché non divenni uno studioso di etnomusicologia, forse perché “analfamusico”, come diceva Carpitella, forse perché preso dalla storia, dalla letteratura, dall’antropologia. E la cosa mi sembra ancora più paradossale se penso che mio padre, fin da bambino, suonava nella banda del paese e i miei amici del Sessantotto e dintorni suonavano chitarre, mandolini, fisarmoniche e ormai restituivano dignità e visibilità a una tradizione, che Otello Profazio ha avuto il grande merito di riportare, in maniera del tutto originale, in auge. A volte penso che forse mi comportai come una persona che non sposa la donna che ama, magari perché pensa di amarne tante altre.

Rimasi sempre in rapporto con Carpitella, con i suoi tanti bravissimi allievi, ho seguito sempre quanto accade nella ricerca etnomusicologica, penso di aver sostenuto e promosso anche le ragioni dell’etnomusicologia in ambito accademico e fui molto contento quando Carpitella, Anna Lomax, poi Giuriati, poi Adamo vennero ad insegnare a Cosenza. Intanto l’etnomusicologia, a livello accademico, prendeva un percorso diverso dall’antropologia, ma io per quanto “analfamusico”, ho tra i miei giovani amici più cari suonatori di strumenti popolari, musicisti, cantastorie. E adesso che (dopo una bella iniziativa fatta a Cardeto) si concretizza la possibilità di creare qualcosa di stabile a Bivona, nel nome del grande Lomax e del grande Carpitella, io non riesco a vivere il tutto con una grande emozione e con una nostalgia che sa tanto di utopia.